Anche questi che vedete in foto sono rispettivamente un figlio e una madre, ma non hanno alcun rapporto di parentela tra di loro.
Lui è ALDO ROLFI, figlio di Lidia Beccaria Rolfi, un’italiana deportata per motivi politici nel Lager di Ravensbrück nel giugno 1944: è intervenuto domenica 11 marzo scorso nei tristi luoghi per le commemorazioni lì organizzate dal Comites Berlin in collaborazione con l’Ambasciata italiana in Germania.
Mi colpiscono varie cose: un fazzoletto al collo a strisce grigie e blu, gli stessi colori delle divise delle deportate “di livello” nel Lager (le altre di “ceto inferiore” vestivano di soli stracci) e la sua voce che si incrina mentre legge alcuni passi del libro scritto a due mani dalla madre assieme all’altra deportata -sempre italiana- Anna Maria Bruzzone: “Le donne di Ravensbrück”, Gli Struzzi 158, casa ed. Einaudi (1978). E’ evidentemente commosso, anche se sempre lucido e disponibile a rispondere alle svariate domande rivoltegli. Anche le mie. Mi parla della madre e del suo rapporto con Primo Levi e mi commuovo anch’io intimamente. E’ desideroso, e si percepisce nettamente, di divulgare e coinvolgere il più possibile, perché si sappia, perché si rifletta, perché non ci si anestesizzi, non ci si fermi alla paginetta di storia o alla commemorazione ad hoc.
Non sono venuta sola a Ravensbrück: è la mia prima esperienza in questi luoghi e mi accompagno ad un’amica, che é anche madre. Quello che mi colpisce di lei, fra le altre cose, è la voglia che i figli (ne ha tre) sappiano e riflettano, specialmente nella condizione di agio personale e sociale, che vivono, cioè in un’Europa che non conosce guerre cruente da circa settant’anni. La mia amica si è documentata prima di arrivare in questi luoghi e mi parla delle sue ricerche nel tragitto in pullman, che ci conduce fino a qui da Berlino. L’ascolto con interesse, anche perché non narra solamente, percepisco che ha approfondito ed è rimasta personalmente coinvolta da una storia devastante.
Si mettono a parlare insieme, quel figlio e questa madre, fitto, fitto ed io voglio immortalare questo momento, scattando loro questa foto. Arrivano al punto nevralgico: tramandare la memoria e le esperienze terribili vissute in questi luoghi, “perchè i ricordi riaffiorano soltanto quando ritorno ad essere persona“, per dirla alla maniera di Lidia (Ibidem, p. 95).
Il figlio ha uno spinoso problema, e non di poco conto, ossia che il libro edito dall’Einaudi é esaurito e al momento nessuno vuole ripubblicarlo…assurdo, no ?!
Quindi se qualcuno può far qualcosa, batta un colpo, perché siamo tutti responsabili non solo in azioni, ma anche in omissioni: non uccidere, ma anche non lasciar morire, non solo le persone, quanto ancor di più la loro memoria.
La madre ha anche lei un problema analogo: ha proposto nella scuola tedesca, che frequenta il figliolo, un viaggio di studio in Polonia, per ammirare le bellezze di Cracovia in allegria e per portare i ragazzi in visita ad Auschwitz-Birkenau. Mi riferisce che la proposta non è stata però ben accolta dai genitori dei teen ager e che si é ripiegato per una vacanza-studio in località soltanto amena, a fare camping. Benché, mi spiega, come le gite al termine della decima classe in Germania debbano sempre avere un fine culturale educativo. Ecco nella fattispecie si è preferita la gitarella al mare (Baltico) piuttosto che la riflessione a Birkenau…in fin dei conti si potrebbe pensare che hanno studiato la questione sul libro di storia e non è previsto un Praktikum in loco, almeno non in questa epoca !
A questo punto vorrei citare e porgervi ancora le parole di Lidia: “I rischi maggiori non sono le punizioni, le epidemie, la fame e il lavoro, ma la disumanizzazione a cui bisogna resistere e che bisogna fin dal primo giorno imparare a combattere…Ho visto invece le francesi del trasporto di agosto organizzare al blocco 24, fin dai primi giorni, lezioni di storia, di letteratura, di geografia, per impegnare le deportate, per costringerle a pensare, per obbligarle a mantenersi vive.“ (Ibid., pagg. 34-35).
Ora c’è da dire che i tedeschi hanno fatto una seria e profonda riflessione sul loro passato nazionalsocialista, che si tocca con mano sia nell’architettura monumentale a Berlino (Monumento al memoriale dell’Olocausto, Monumento al programma di augenetica T4, le cd. “pietre di inciampo” davanti ai portoni dei deportati ebrei), sia nell’architettura per così dire sociale e mi riferisco, ad esempio, al caso giunto agli onori della ribalta circa due anni fa sul quotidiano italiano “La Repubblica”.
Un certo cittadino di un piccolo Comune tedesco, ormai ottuagenario, distintosi all’interno della comunità per l’integerrima condotta civile era stato insignito dell’onorificenza cittadina, quando è scoppiata un’accesa discussione in Italia, giacché si era venuto a sapere che era uno dei carnefici nazisti dell’eccidio di Marzabotto a danno di inermi civili italiani, sospettati peraltro di aver collaborato con forze partigiane all’epoca della Seconda Guerra mondiale. Ebbene il Comune tedesco ha avviato con rigoroso metodo storico-scientifico l’indagine del caso e ha revocato l’onorificenza, avendo verificato la fondatezza della denuncia italiana.
Però, e c’è sempre un però, quello che mi allucina di questa mia esperienza tedesca é constatare l’estrema rigidità per molti aspetti di questo popolo, quasi un militarismo di pensiero, per così dire un aspetto prussiano, che permea -a mio personalissimo avviso- molte situazioni, le quali al contrario, per un italiano, dovrebbero essere condotte e vissute con ben altri metodi ed anche prospettive.
A tale proposito mi riferisco, ad esempio, all’esame della Schulfähigkeit, cui vengono sottoposti i bambini del Kindergarten, che devono accedere alla Grundschule. Mi è capitato di aver accompagnato un piccino, pensando che fosse un controllo medico, tipo misurazioni varie: cuore, peso, statura. Ciò riguarda in verità i primi cinque minuti della faccenda, poi ci sono piccoli test prodromici con un ‘infermiera (poca roba), per passare quindi al medico, spesse volte anche psichiatra. Viene richiesto al bimbo di correre in tondo per valutare come corre, come è coordinato (se è abile allo studio o al lavoro !?), poi gli viene chiesto di rimanere su di una gamba in equilibrio per circa un minuto e piano piano si passa alla costruzione delle frasi in tedesco, al ripeterle al contrario e di comporre una rima, fare il disegno della casetta e dell’albero per comprenderne la personalità. Tutto è studiato e non lasciato al caso, ci sono i protocolli, per inquadrare già i bambini problematici o meno o addirittura quelli plusdotati, perché in entrambi i casi seguiranno scuole speciali. Già, nella ricca e organizzata Germania, quella prima in Europa sotto molti profili, dei conti apposto alla Scheuble, l’integrazione scolastica è ancora poca cosa. Anche di questo soffro in Germania, questo estremo rigore verso i bambini, il quale talvolta arriva fino a turbarli, a stressarli in un’età che dovrebbe essere con pensieri lievi….sono da subito posti sotto la lente di ingrandimento di Maestri e della Sonderpädagogin. Quando sento l’aggettivo “sondern“, cioè “speciale“, tremo. Era usato anche nel Lager…il “Sondernkommando“.
Ed anche quando una mamma, come tante, va a fare acquisti all’IKEA e lascia i suoi bamboli al Betreung, cosa fa la zelante Babysitter ?! Stampa una bella stringa di numeri sul dorso della manina del bimbo, non un delizioso animaletto, non appone un adesivo col nome sul pullover…
Ecco allora che tornano di nuovo alla mente le parole, appena lette di Lidia: “Ogni minimo particolare é studiato apposta per accelerare il processo di spersonalizzazione delle detenute destinate a diventare numeri, esseri senza nome…” (Ibid., p. 23), perché -a mio avviso- la memoria e soprattutto le parole, non i soli numeri caratterizzano la persona. Aldo mi ricorda che a sua madre era stato assegnato il numero di matricola 44140, l’Häftlingsnummer, un vero e proprio shock per la persona che lo subisce. Mi ricorda anche che soltanto ad Auschwitz-Birkenau si procedeva a un vero tatuaggio sull’avambraccio: gli esseri umani venivano marchiati a fuoco, come le bestie di una mandria o di un gregge. Particolare valenza poi assumeva contro gli ebrei, in quanto la legge mosaica vieta il tatuaggio e pertanto c’era anche l’intento di recare offesa a quella religione.
Mi faccio ulteriore coraggio anch’io e rimango a parlare con Aldo, ad interrogarlo, a voler sapere, a capire se c’è modo di far ripubblicare il libro, perché Lidia ci lascia detto: “La certezza di tornare alla normalità, di rientrare definitivamente nel mondo dell’umano l’ho avuta però quando ho incominciato a sentire la mancanza dei libri” e per tramite del figlio Aldo, che mi dona la copia che ha in tasca – col vincolo morale di parteciparla agli altri- Lidia mi dedica il suo scritto “con affetto“. Questa è la sua dedica, che mi ha profondamente colpito. Per questo oggi vi scrivo.
Autrice: Violetta
DISSONANZE vuole essere una piccola rubrica ove parlare di alcune “divergenze” percepite da un occhio italiano a Berlino, contrasti che potrebbero essere più formali che sostanziali, se si vuole essere europei e sintetizzare molteplici aspetti culturali, che convivono molto bene qui. Leggi gli altri articoli