Liebeslied (Neue Gedichte, 1907)
Wie soll ich meine Seele halten, daß
sie nicht an deine rührt? Wie soll ich sie
hinheben über dich zu andern Dingen?
Ach gerne möcht ich sie bei irgendwas
Verlorenem im Dunkel unterbringen
an einer fremden stillen Stelle, die
nicht weiterschwingt, wenn deine Tiefen schwingen.
Doch alles, was uns anrührt, dich und mich,
nimmt uns zusammen wie ein Bogenstrich,
der aus zwei Saiten eine Stimme zieht.
Auf welches Instrument sind wir gespannt?
Und welcher Spieler hat uns in der Hand?
O süßes Lied.
Come potrei trattenerla in me,
la mia anima, che la tua non sfiori;
come levarla oltre te, all’infinito?
Potessi nasconderla in un angolo
sperduto nelle tenebre;
un estraneo rifugio silenzioso
che non seguiti a vibrare
se vibra il tuo profondo.
Ma tutto quello che ci tocca, te
e me insieme
ci tende come un arco
che da due corde un suono solo rende
Su quale strumento siamo tesi,
e quale grande musicista ci tiene nella mano?
O dolce canto.
Ho amato Rilke dal primo momento in cui l’ho letto, più di venti anni fa. L’ho sentito mio senza nemmeno avere bisogno di andarmi a studiare la sua poetica. Unico cruccio, non poterlo leggere in lingua originale: ora che questo ostacolo è superato, riesco meglio a capire quanto sia ardu
o e faticoso il lavoro del traduttore, in particolar modo con un poeta come Rilke che le parole, quando serve, le inventa. Poiché la sua visione è tale che trasforma l’esterno e l’interno in realtà nuove, c’è bisogno di dare un nome, a queste realtà.
Quello che più mi ha colpito, e che ancora sempre mi colpisce, è che io riesco a vedere e sentire “quel” mondo, come se ci avessi abitato da sempre: un mondo nato da parole che evocano e costruiscono al tempo stesso luoghi ed esperienze dell’anima.
Ho scelto una delle poesie che amo di più, e vorrei raccontare che cosa succede nel trapasso da una lingua all’altra: cosa si perde, cosa si conquista.
Liebeslied, il titolo, è già una parola intraducibile in italiano. Certo, si potrebbe utilizzare “canzone d’amore”: ma è inimmaginabile, in italiano, non associare questo titolo a Nilla Pizzi o Massimo Ranieri (con tutto il rispetto). Allora, saggiamente, il traduttore (Giacomo Cacciapaglia, nell’edizione di Einaudi), evita.
Ho elaborato una piccola tabella di confronto tra le due lingue per scoprire quanto cambino emozioni e sensazioni nel passaggio da una lingua all’altra: e quanto cambi la realtà stessa.
Rilke è un poeta capace di dare anima alle cose, di farle diventare parte di noi, di imprimere ad esse uno struggimento che le trasforma in stanze della nostra anima. E come lo fa? Con le parole, accostate tra loro in una sequenza estraniante e quindi capace di aprirci occhi che nemmeno sapevamo di avere.
TEDESCO
Halten
Anrühren
Sie hinheben
Andern Dingen
Irgendwas Verlorene
Unterbringen
Weiterschwingt
Uns anrührt
Nimmt uns zusammen
Zieht
Sind wir gespannt
Hat uns
ITALIANO
Trattenere
Sfiorare
Levarla
Infinito
Angolo sperduto
Nascondere
seguiti a vibrare
Ci tocca
Ci tende come un arco
Rende
Siamo tesi
Ci tiene
Non mi soffermerò su tutte le parole che ho selezionato: mi limiterò a quelle che più ci illuminano sulla diversa capacità fantastica della lingua tedesca e di quella italiana. Entrambe sono lingue piene di parole: il tedesco ha, però, una incredibile creatività nella costruzione di parole composte che “aprono” a significati anche molto distanti dal lemma originario.
Ad esempio, il verbo “anrühren” compare due volte: la sua etimologia richiama un gesto della mano che tocca appena l’oggetto; l’italiano sceglie “sfiorare” nel primo caso e “toccare” nel secondo: uno stesso verbo dà origine a due traduzioni diverse. Perché? Perché l’italiano ha molte parole semplici per tante sfumature di significato, mentre il tedesco riempie le parole composte di mille significati (chi studia il tedesco questo lo sa bene!).
Due espressioni che, lette come le ha scelte Rilke, mi emozionano tanto, sono Andern Dingen (Wie soll ich sie hinheben über dich zu andern Dingen?) e Irgendwas Verlorene (Ach gerne möcht ich sie bei irgendwas Verlorenem im Dunkel unterbringen), rispettivamente tradotte con “come levarla, oltre te, all’infinito?” e “potessi nasconderla in un angolo sperduto delle tenebre”. Quell’infinito è, in realtà, presente nel verbo tedesco hinheben, che richiama un innalzamento verso qualcosa di indefinito, e che rende un’espressione comune come andern Dingen potentemente evocativa. L’italiano infinito, da Leopardi in poi, è parola poeticissima. Ancor più Irgendwas Verlorene ha in sé, come concetto (perché le parole, prese singolarmente, sono quanto mai comuni) un colore che all’italiano, semplicemente, manca. Quel senso di aver perduto qualcosa, senza che si sappia cosa sia e se lo si abbia mai avuto, è un tratto della cultura tedesca dal Romanticismo in poi, ed è sua specifica: l’italiano può avvicinarlesi, traducendo con angolo sperduto ciò che per il poeta è irrimediabilmente perso.
Perché amo tanto il tedesco? Perché ha le parole che da italiana io non ho ancora trovato.
Autore: Giulietta Stirati