Rosen auf den Weg gestreut
Ihr müßt sie lieb und nett behandeln,
erschreckt sie nicht – sie sind so zart!
Ihr müßt mit Palmen sie umwandeln,
getreulich ihrer Eigenart!
Pfeift euerm Hunde, wenn er kläfft –:
Küßt die Faschisten, wo ihr sie trefft!
Wenn sie in ihren Sälen hetzen,
sagt: »Ja und Amen – aber gern!
Hier habt ihr mich – schlagt mich in Fetzen!«
Und prügeln sie, so lobt den Herrn.
Denn Prügeln ist doch ihr Geschäft!
Küßt die Faschisten, wo ihr sie trefft.
Und schießen sie –: du lieber Himmel,
schätzt ihr das Leben so hoch ein?
Das ist ein Pazifisten-Fimmel!
Wer möchte nicht gern Opfer sein?
Nennt sie: die süßen Schnuckerchen,
gebt ihnen Bonbons und Zuckerchen …
Und verspürt ihr auch
in euerm Bauch
den Hitler-Dolch, tief, bis zum Heft –:
Küßt die Faschisten, küßt die Faschisten,
küßt die Faschisten, wo ihr sie trefft –!
RIDERE DEL MALE SENZA DIMENTICARLO
“ Mein Führer – La veramente vera verità su Adolf Hitler“ (Mein Führer – Die wirklich wahrste Wahrheit über Adolf Hitler) 2007, regia: Dany Levy. Attori principali: Ulrich Mühe, Helge Schneider
Il refrain della poesia-canzone del poeta ebreo berlinese Kurt Tucholsky („Küsst die Faschisten, wo ihr sie trefft!”) apre questo film che infrange il tabu del silenzio intorno ad un tema ancora bruciante come il nazismo; del nazismo, dei tedeschi durante il nazismo, della pesante eredità che la Germania porta con sé si parla, e molto, e molto seriamente soprattutto in Germania: ma non se ne può ridere. Non si ride sulla tragedia della storia, sarebbe “sdoganarla”. Eppure questo film ci ha provato, e non importa che il risultato non sia esaltante: importa che un passo verso un nuovo punto di vista si sia fatto. Questo è uno dei meriti dell’arte: poter dire l’indicibile e permettere all’anima di accogliere l’orrore senza rimanerne distrutta.
La storia si fonda su un paradosso: Hitler potrà recuperare il suo antico e magico appeal solo se sarà capace di ritrovare dentro di sé quel puro odio antiebraico grazie al quale è diventato il Führer del Reich millenario, e quella fiamma può essere ridestata solo da un ebreo. Quindi, Hitler ha in realtà bisogno degli ebrei: senza gli ebrei la sua forza svanisce.
Siamo a pochi giorni dal Capodanno 1945 e Hitler è in crisi: chiuso nel suo silenzio, non vuole ammettere la sconfitta e si arrovella intorno al discorso che pronuncerà il 1 gennaio e che –nelle sue speranze- rianimerà la Germania verso la vittoria. L’infaticabile Goebbels, realisticamente, sa che il suo capo non ha più possibilità di risollevarsi da solo, e allora concepisce un piano: ingaggerà un attore, il miglior attore di tutti i tempi a suo dire, che costruirà ex novo discorso e personaggio. Quest’uomo –Adolf Grünbaum- si trova però a Sachsenhausen, con tutta la famiglia. E che problema c’è! Si prelevi il prigioniero e lo si porti a Berlino! Il prigioniero ha delle richieste? Le si esaudisca! Il fine giustifica i mezzi, no? Lo si rifocilli con un panino al prosciutto! Lo si metta a proprio agio, così che possa lavorare in pace!
A un esterrefatto Grünbaum un ilare –isterico- Goebbels espone il suo piano: lei, che è (sì, sì: è) il mio idolo, il più grande attore che ci sia, istruirà il mio capo e gli farà lezione per fargli pronunciare il più grande discorso mai pronunciato, così il Reich si risolleverà! Lo sterminio degli ebrei in atto? Nulla esiste di fronte ai piani di Goebbels: dettagli che possono essere trascurati. L’uomo, abbrutito e avvilito, direbbe no; ma l’artista, invece, dice sì. Incurante delle raccomandazioni della moglie, del terrore dei figli (che lo raggiungono, secondo il suo desiderio), il grande artista si cimenta in un compito che gli offre l’occasione di vendicarsi e di fare giustizia. Chiede la liberazione di Sachsenhausen e l’ottiene, tratta Hitler come un bambino, gli fa fare cose indegne di un Führer e nessuno lo tocca, progetta un attentato, e ci riesce.
In una deriva grottesca e, in fondo, amara, Hitler emerge come un uomo frustrato da un padre anaffettivo e crudele: Grünbaum, in una sorta di training psicometafisico, fa rivivere al suo paziente –ché questo è- quelle sofferenze infantili e gliele fa trasformare in una palla di fuoco da lanciare nel discorso di Capodanno. Al tempo stesso, però, la costruzione antisemita nazista viene fatta a brandelli, ridotta a una sorta di compulsione indotta dal trauma infantile: Hitler fa agli ebrei quello che il padre ha fatto a lui. Serve saperlo? No, purtroppo.
Come in uno specchio della verità, Adolf l’ebreo mostra ad Adolf la guida la sua vera immagine di non-uomo: le posizioni, almeno moralmente, sono invertite. Hitler rivela la sua inconsistenza, di fronte a un uomo che, condannato comunque, si eleva sopra quella miseria. La verità che lo spettatore percepisce però è riservata solo a lui e al magico artista Adolf: né Hitler né i suoi ridicoli e grotteschi accoliti ne sono minimamente consapevoli. La terribile finzione nazista permane e perdura a dispetto di tutto, la menzogna continua ad oscurare la verità: Sachsenhausen non è liberata (Grünbaum, sotto sotto, lo sa), gli ebrei sono comunque destinati a scomparire e il fatto che il più grande attore di tutti i tempi sia ebreo resta solo uno spiacevole “accidente”, e l’attentato a Hitler sarà l’ultima prova per il grande attore Adolf Israel Grünbaum. Questa, in fondo, è la colpa di tanti uomini: aver avuto occhi per vedere, e non aver voluto vedere.
Autore: Giulietta Stirati