Una volta che si è intrapresa una strada che –ci si accorge a un certo punto- finisce in un burrone, si può tornare indietro?
La risposta non è così scontata come sembra. Sì, certo, si può tornare indietro: ringraziare la circostanza che ci ha aperto gli occhi, chiedere perdono a chi abbiamo calpestato nella nostra folle corsa, e umilmente riprendere il cammino con una coscienza più vigile. Oppure no: non si può tornare indietro, se la velocità è più forte dello spazio necessario all’arresto, se la forza d’inerzia ci spinge avanti, se la disperazione ci toglie la luce dagli occhi.
Questa è la tesi del film “L’onda”: se ci si lancia in un progetto delegando alle aspettative che esso genera la nostra ragione di vita, siamo destinati alla più atroce delle sconfitte, e lo saremo –ancora di più perché ne portiamo la consapevolezza- anche nel caso in cui di questo progetto siamo i registi esterni: perché se la “buona fede” o lo “scopo educativo” sono poco lungimiranti, la slavina travolgerà pure noi.
È questo quello che accade al professor Rainer Wenger (interpretato da Jürgen Vogel), insegnante di lettere in un Gymnasium della Germania settentrionale (Havelland): amatissimo dai suoi studenti per il suo anticonformismo, propone –nell’ambito della “settimana a tema”- un seminario pratico sull’autocrazia, sfidando gli studenti a smentire la tesi secondo la quale il nazismo non è debellato una volta per tutte. Per fare ciò, occorre che la classe metta in atto una serie di comportamenti –dopo averne discusso- capaci di costruire un’autocrazia: anche solo per una settimana, anche solo in classe.
Ma è qui che Rainer sbaglia: quelle lezioni, quei “compiti”, quei comportamenti bucano le pareti della classe invadendo tutta la vita degli studenti; accendono una serie di reazioni a catena che superano di gran lunga gli intenti didattici e che rivelano quanto, nell’essere umano, vi sia di oscuro, feroce, violento. E se tutto questo avviene in una scuola superiore attenta ai processi di integrazione e attiva nei progetti di educazione democratica, chi può dirsi veramente immune dal fascismo?
Scandita dal ritmo dei giorni da lunedì a sabato –come una settimana di Passione a rovescio- assistiamo a un movimento che si compone costantemente di due elementi fra loro contrari: si sperimenta il potere attraverso la disciplina/se ne va dalla classe l’alunna che rifiuta una disciplina fine a se stessa; si mette in atto il potere attraverso l’unità (marciare sul posto per diventare un “corpo unico”, creazione del logo e del nome del gruppo)/segnali di esclusione; si realizza il potere attraverso le azioni/il gruppo diventa aggressivo e violento (contro chi non indossa la “divisa”, contro gruppi percepiti come nemici). Il professor Wenger è sicuro di saper gestire quello che per lui è solo un esperimento (a questo proposito, chi vuole legga “Obbedienza all’autorità” di Stanley Milgram, o “Massa e potere” di Elias Canetti), e in qualche maniera comincia a vivere due vite parallele, che crede non si incontreranno mai, poiché una –quella “finta”- esiste solo in classe, secondo lui, e l’altra –quella “vera”- continua ad essere imperniata sui valori nei quali egli continua a credere. Non si accorge degli inquietanti segnali che da più parti si manifestano (le perplessità della moglie, l’improvviso cambiamento di alcuni alunni più fragili che si sentono forti nel momento in cui diventano parte del gruppo, i richiami di Karo, la ragazza che viene estromessa dal gruppo perché non si allinea) ed è fatale che perda la percezione della realtà fuori della classe. Non vede –perché in fondo si sente esaltato dal suo successo personale- che tutte le “buone” cose che è riuscito a fare hanno un’ombra nera dentro che le divora: non vede che allo spirito di gruppo corrisponde una chiusura contro il mondo “fuori”; non vede che la sicurezza acquisita da molti non è che la rinuncia alla scoperta della propria libera identità; non vede che la violenza –imposta e subita- è l’unica modalità comunicativa del gruppo e il suo unico linguaggio. Nemmeno la metamorfosi di Tim, che da zimbello della classe diventa una specie di giustiziere-guardia del corpo, allarma Rainer sulla reale entità del mostro che il suo esperimento ha generato. La reciprocità, l’aiuto, la collaborazione, l’amicizia, le feste…sono solo la fragile pelle che a stento copre una ferita in suppurazione.
Sarà Marco, l’insicuro, sensibile ragazzo di Karo, ad aprire gli occhi al professore. Al dialogo ha preferito la violenza (ha picchiato Karo) ed è diventato ciò che non vuole essere: ed è allora che un esterrefatto Rainer capisce –nelle disperate lacrime di questo ragazzo- di essere anche lui caduto nella sua stessa trappola.
Troppo tardi, però. In un estremo tentativo, Rainer “sceneggia” davanti all’intero gruppo a quali terribili conseguenze porterebbe la meccanica applicazione dei principi codificati in quella settimana, e convince quasi tutti. Convince quasi tutti che “queste cose non si correggono, perché quello che abbiamo appena fatto è quello che si fa in una dittatura.”
Ma non Tim, il debole, il timido, il povero Tim che dell’”Onda” ha fatto la sua vita. Tim tira fuori la sua pistola, e spara. E si spara in bocca.
E non si può tornare indietro.
È per questo che per me essere insegnante è essere me.
Autore: Giulietta Stirati