A margine della scoperta di una Berlino che non c’è più ma che mantiene il ricordo di ciò che è stata
Della memoria esistono milioni di definizioni, a seconda dell’eco che ha in ciascuno o del contesto in cui la si evoca. Siamo fatti di memoria, siamo –stando alla radice indoeuropea del nome, men-mne-mon– costituiti dalla memoria di ciò che siamo stati e siamo circondati da memorie che mostrano il loro volto pubblico quando prendono la forma di monumenti.
Vi sono, quindi, memorie “dichiarate” e memorie “velate”: è di queste ultime che amo andar cercando le tracce e ricomporle in una forma capace di prendere vita (che è poi il significato di “rimembrare”). Uno straordinario svelamento l’ho vissuto camminando per le strade di Berlino, che in questo senso è una vera miniera.
Mi soffermerò su specifiche tracce, e riserverò a momenti successivi le altre avventure. Alla ricerca delle ferite che il nazismo e la Shoah hanno inferto al tessuto della città, sono andata in cerca dei segni che me ne indicassero le cicatrici. Ebbene, quello che la città di Berlino ha fatto del suo tempo trascorso è stato trasformarlo in spazio: camminando, vedevo il tempo srotolarsi davanti a me, e non in forma di intime elucubrazioni mentali ma ben visibile e collocato in spazi resi significativi appositamente.
Lo spunto me l’ha offerto un libro (Johannes Heesch e Ulrike Braun, ORTE ERINNERN, Spuren des NS-Terrors in Berlin – ein Wegweiser, Nicolai, 2003) che è una guida allo spazio della memoria che la città di Berlino ha dedicato alla sua storia più cupa. Un libro straordinario, che permette al viaggiatore –e non al turista- di scoprire, oltre a ciò che è evidentemente sotto gli occhi di tutti (come per esempio il Denkmal für die ermordeten Juden Europas, il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa; in calce il link da cui partire per conoscere un po’ più a fondo queste attività), ciò che va cercato, seguito, fiutato.
La passione che ho per questa città e per la sua storia mi ha portata a sfruttare al massimo una qualità che ho sviluppato negli anni, e cioè la capacità di vedere quel che non è direttamente percepibile alla vista (chissà che in questo la mia miopia non mi abbia aiutata), ma che si palesa attraverso il filtro dei pensieri, delle emozioni e degli studi compiuti.
Sicché, seguendo le indicazioni per il Bayerisches Viertel (un quartiere di Schöneberg), ho cominciato a camminare per le sue vie –nelle quali, da quando il quartiere fu istituito, abitavano circa 16 000 ebrei- e a leggerne la storia guidata dalle tavole di un’installazione permanente: ottanta pannelli –che a prima vista paiono quelli alle fermate dell’autobus- parlanti, su entrambi i lati: un’immagine simbolica su di un lato, un testo sull’altro. Questi sono le sciagurate leggi, o direttive, o comunicazioni, emanate tra il 1933 e il 1944, contro la popolazione ebraica; quelle, disegni che in modo diretto o allusivo fanno riferimento al testo che accompagnano. La scelta di collocare queste memorie nelle vie che hanno visto compiersi la tragedia dello sterminio (dall’abbandono delle case, alla loro espropriazione, alla costituzione delle “Judenhäuser”, fino alla deportazione verso la morte, come testimoniano anche i numerosi Stolpersteine disseminati per le vie) è non solo un gesto di grande civiltà e responsabilità, ma ha in sé quella forza che solo i monumenti vivi hanno. Una forza che riesce a trasformare il passato in una parte imprescindibile del presente: non un macigno da sopportare a testa bassa, ma una memoria vibrante nei passi di chi cammina e che, per un po’, si fa accompagnare dai passi e dalle voci di chi non c’è più. Io sono stata in compagnia di tutti loro, quella mattina, e ho pensato che se un modo c’è per fare pace con gli orrori che abbiamo compiuto, questo è uno dei più ricchi e pieni di significato.
http://www.stiftung-denkmal.de/
Autore: Giulietta Stirati