Il 13 febbraio scorso Berlino ha celebrato un suo speciale equinozio: in quella data erano passati, dalla caduta del muro, 28 anni, 2 mesi e 26 giorni, pari al periodo (dal 13 agosto 1961, 56 anni appena compiuti) in cui esso era stato in piedi.
Ed è notizia recentissima che nel quartiere di Mitte è stata scoperta, per caso, una piccola porzione di muro (circa 20 metri del perimetro esterno) non abbattuta perché ricoperta di vegetazione rampicante. Questa traccia della storia è stata aggiunta, il 13 agosto, ai monumenti storici protetti di Berlino e diventerà parte integrante del parco che l’agenzia immobiliare proprietaria dell’area costruirà.
Sono passati tanti anni e il Muro ancora ha qualcosa da dirci, ancora non ha esaurito il suo compito di vero monumentum.
Io, che ho vissuto la storia del Muro con grande partecipazione, quasi non riesco a capacitarmi che siano passati già quasi trent’anni da quella data di novembre del 1989: ero a casa e studiavo, mi ricordo, e dimenticai tutto per seguire incollata alla TV quell’evento epocale.
Quando andai a Berlino per la prima volta, era già passato del tempo e la città stava già cambiando volto; era il 1996, e ricordo che da subito –cosa che continuo a fare ogni volta che vado- cominciai a cercare le tracce di quella che era stata la città simbolo della spaccatura fra due mondi.
Come molti, non avevo bene idea di come fosse fatto questo muro; ne comprendevo bene la potenza simbolica, e romanticamente mi immaginavo che il suo abbattimento –accompagnato dal violoncello di Rostropovitch- avrebbe posto fine all’ingiusta separazione tra fratelli. Sappiamo bene tutti che le cose poi non sono andate proprio così e sebbene il muro di Berlino sia stato abbattuto, molti altri ne sono sorti, ancora più ingiusti.
Ma torniamo alla mia esperienza del Muro: me lo figuravo come un lungo serpentone che tagliava in due la città e mi chiedevo: “ma finirà, da qualche parte, no?”; poi capii: il muro non aveva fine, perché era una cinta, una enorme manetta, che avvolgeva Berlino Ovest, separandola non solo dalla Berlino dell’Est che la circondava, ma da tutto il resto della DDR. Come ci si sente, a vivere così? La mia, preciso, non è un’analisi politica o sociologica: è il tentativo di raccontare la moltitudine di emozioni e di sentimenti stratificati che questa città e la sua storia risvegliano in me ogni volta che ci penso. E se devo trovare il nome al sentimento prevalente, non mi riesce. Come tutti coloro che sentono di essere fatti della storia che li ha preceduti e in cui vivono immersi, il sentimento dominante non può che essere il risultato assurdo di una fusione di strazio e amore.
Nel 2006 visitai il museo appositamente creato nella Bernauerstrasse, una via simbolica dello strappo nella vita della città. Immagini note a tutti raccontano di famiglie spezzate da un muro che passava dentro le case, costringendo le persone a compiere scelte estreme. Parte integrante del museo è un’area antistante ad esso in cui è stata mantenuta integralmente una piccola porzione del muro originario, piccola ma immensa per quello che rivela; il muro era una vera e propria fortificazione a doppia mandata, potremmo dire: una doppia cinta muraria in mezzo alla quale un tetro e sorvegliatissimo no man’s land stava lì a scoraggiare fughe e a mantenere saldo l’isolamento tra le due città.
Il Muro, una ferita aperta nel cuore dell’umanità. Che si fa delle ferite? Si curano, si cerca che cicatrizzino, ma esse non scompaiono, e questo è un bene. Perché ci ricordano cosa abbiamo superato, e quanto abbiamo sofferto, e Berlino ha voluto ricordare quella immane ferita esponendo le cicatrici. Lo ha fatto in due modi: uno è quello visibile, colorato e godibile che si vede passeggiando per la East Side Gallery (meraviglioso, andateci!), che racconta e rievoca gli aneliti mai sopiti alla libertà, alla fratellanza, alla gioia e alla giustizia; l’altro è quello silenzioso della volontà di non occultare le cicatrici. La foto che accompagna questa mia riflessione l’ho fatta praticamente in mezzo alla strada, sulla Potsdamer Platz, ed è una cicatrice. Lì, mi dice, proprio dove ora ci stai passando tu, c’era il nulla, c’era il Muro. Berlino ha deciso di rendere invisibile (non di distruggere) il bunker di Hitler, ma ha deciso di mantenere la traccia di quella ferita che è stata il Muro.
Autrice: Giulietta Stirati