Arrivo all’appuntamento per questa intervista un po’ turbata: non mi era mai capitato di intervistare ufficialmente una signora di 85 anni.
Ci sediamo al tavolo di un ristorante, un ristorante italiano il “PAN DEGLI ANGELI”; dopo un rapido scambio di battute, iniziamo l’intervista. Else Natalie Warns, mi chiede di chiamarla Müsch, perché così la chiamano in famiglia, e con occhi malinconici e innamorati inizia a raccontarmi la storia di suo marito.
Eberhard Warns nasce a Warendorf il 25 marzo del 1927. Dopo aver frequentato le scuole elementari e le scuole superiori, nel 1944 ad appena 17 anni si arruola; decide di non entrare a far parte delle SS, pertanto viene inviato al confine, in Danimarca. L’esperienza della guerra, resterà sempre tragicamente impressa nella sua memoria, nella sua anima, nel suo inconscio, come una ferita mai rimarginata, un trauma mai elaborato.
Dall’aprile al novembre 1945 viene imprigionato ad Attichy in Francia. Lì incontra suo fratello maggiore Hartmut, nel cosiddetto “campo teologico”, dove inizia la sua preparazione per gli studi di teologia.
Dal febbraio del 1946 al luglio del 1954 porta a termine i suoi studi e diventa Pastore. Il 13 ottobre 1954 sposa la nostra Müsch e dalla loro unione nascono 4 figli: nel 1955 Dorothea, nel 1957 Brigitte, nel 1959 Guntbert e nel 1968 Johannes. Viaggi, conferenze e la stesura di libri si susseguono, fin quando nel 1990 qualcosa di inaspettato accade. Eberhard inizia ad ammalarsi, la diagnosi dei neurologi dice: demenza.
La nostra Müsch, si ferma, incamera quanta più aria possibile, e resta alcuni secondi in silenzio, un silenzio assordante. A parlare sono i suoi grandi occhi azzurri, un mare in tempesta si intravede, un oceano di dolore, e una lacrima le riga il volto. Facciamo una piccola pausa e mi racconta che nel 1990 inizia un vero e proprio calvario. Si susseguono periodi in cui Eberhard non sente, a periodi di mutismo, di alterazione del bioritmo e della percezione del giorno e della notte. La percezione della realtà è alterata. Irrequietezza e tentativi di fuga fino a disperati tentativi di suicidio.
Eberhard non accettava la gabbia, la prigione in cui era ripiombato dopo 45 anni. Di nuovo. Si susseguono ricoveri in varie strutture, cosulti di tanti medici e neurologi. I figli e tutti i nipoti, sempre a supportare i nonni, sempre disponibili a qualsiasi ora del giorno e della notte. Müsch con gli occhi lucidi ma pieni di amore, l’amore di una nonna per i nipoti, mi chiede: “Conosci questa parola: “Schutzengel”?”. Io rispondo di sì, la parola significa “angelo custode”, e lei aggiunge: “Per me in quel periodo i nostri nipoti erano diventati dei veri e propri “Schutzenkel”, “nipoti custodi’”. La famiglia era unita, pronta a combattere il mostro: questa malattia così spaventosa e distruttiva.
Dopo dei piccolissimi miglioramenti, grazie alla cura costante della famiglia e alla nostra Müsch, una vera e propria guerriera, riescono a farlo tornare a casa. Eberhard non parla, non si esprime, e non ricorda più molte cose. Müsch gli mostra le loro foto, a volte fa fatica a ricordare chi sia lei e prova a scappare, vuole fuggire lontano. Si dispera perché alcune porte sono state chiuse a chiave (chiaramente per evitare la sua fuga), e diventa violento.
Müsch abbassa la testa, la scrolla, come a voler cancellare il ricordo, poi mi guarda fisso negli occhi, mi sentivo penetrata dalla potenza di quello sguardo, e mi dice: “Quello non era mio marito, sapevo che la malattia aveva preso il sopravvento, la malattia era diventata l’unico tema, l’unico argomento, l’unico protagonista, anzi l’antagonista nella nostra bellissima storia d’amore”. E’ difficile rimanere lucidi di fronte alla potenza di questa affermazione.
Ma poi improvvisamente il suo sguardo cambia. Müsch mi parla della svolta. Una notte, un’altra notte di silenzi assordanti, Eberhard si sveglia di soprassalto e urla a squarciagola: “Ich will Freiheit beim malen”, “Rivoglio la mia libertà, dipingendo”. Inizia a dipingere, Müsch cercava di capire di quali strumenti avesse bisogno e quali colori, di quale tipo; quindi faceva dei tentativi. Mostrava ad Eberhard una serie di tempere e pennelli e lui sceglieva quali in quel momento volesse usare. Da quel momento in poi, più che mai, fino alla sua morte avvenuta il 21 settembre 2007 con la moglie sempre “Tag und Nacht bei ihm”, giorno e notte al suo fianco, dipinse i suoi quadri.
Ciò che resta sono circa 240 dipinti in 7 formati differenti. Questi dipinti e la voglia di far rivivere attraverso gli stessi suo marito portano Müsch alla stesura di 2 libri: Eberhard Warns:”Ich will Freiheit beim Malen” e “Mut u. Wut”. I dipinti vengono considerati di grande valore artistico e per la tematica di cui sono il manifesto, ed è così che iniziano le esposizioni. Prima nella loro città: Bielefeld, poi in tutta la Germania, poi in Europa. Tante personalità di spicco, sia artisti che medici, si sono avvicinati alle sue opere dandone pareri sia artistici che prettamente medici. Dal punto di vista artistico è difficile collocare tali dipinti in un preciso stile, alcuni critici l’hanno considerato astrattismo. Da un punto di vista medico, neurologico, nel dipingere la personalità e la creatività di una persona malata, in alcuni casi, restano sani, non vengono intaccati dalla malattia. Nel caso di Eberhard, la parte artistica del suo cervello era rimasta totalmente sana. I dipinti non sono riconoscibili come provenienti da una mano, un cervello malato.
La nostra cena è già da un po’ sul tavolo e Müsch mi suggerisce di mangiare. Il mio cervello elabora il suo sembra rilassato, come se il parlarne, avesse alleviato il fardello di dolore di qualche grammo. Finiamo la cena parlando della lingua tedesca e di quali termini sono più appropriati quando si parla d’arte e mi fa una proposta: “Ti va di vedere qualche dipinto da vicino? La mia casa ne è piena. Vieni domani a bere un the.”
Il giorno dopo sono lì in perfetto orario, Müsch mi invita ad entrare e ciò che mi si pone dinanzi è uno spettacolo meraviglioso. Questa casa è ricoperta di dipinti! Sono meravigliosi davvero. Mi perdo tra i colori e le forme. Resto allibita. Müsch mi conduce nella sala da pranzo dove ha preparato già il the e dei biscottini. Mentre mi chiede di servirmi, sparisce un attimo e ritorna con due libri: “Ecco, questi sono i due libri che ho scritto. Voglio regalarteli e spero tu possa scrivere un bell articolo”. Mi sono sentita davvero fortunata ad essere lì in quel momento con quella meravigliosa, fortissima donna; fortunata perché Musch è un esempio e perché il mondo ha bisogno di persone così. Persone che sacrificano la loro vita in nome dell’amore e che con un filo rosso restano sempre connesse ai propri cari, facendoli rivivere anche quando non ci sono più.
Mentre mi mancano le parole e non faccio che ripetere “Danke schön, vielen vielen dank”, Müsch si siede e mi dice: “Sai, ieri ho dimenticato di raccontarti un particolare fondamentale. Eberhard non ha mai firmato i suoi quadri, se non all’inizio. Ma un giorno, su uno di essi, in basso, piccolo piccolo ha scritto: “Mut u. Wut”. Per tale motivazione il secondo libro si intitola in questo modo.”
Mi gira il libro nelle mani, volta 3 pagine e mi mostra il dipinto nella sua interezza, e in basso, piccolo piccolo, scritto a matita si legge “Mut u. Wut”. Ecco, tra tutti i dipinti che ho visto, sfiorato con le dita, dipinti dalle mille forme astratte e non, dipinti dai mille colori, alcuni che ricordano quelli della bandiera tedesca come se la prigionia e la guerra non fossero mai andati via; vortici che risucchiano, un pugno chiuso con un occhio che scruta, figure e faccine, linee geometriche e non; di tutti questi dipinti, quello che reca questa piccola, minuscola scritta, risulta essere quello che mi ha trafitto il cuore.
La traduzione italiana di queste due parole è “rabbia e coraggio”. Quale fosse il significato di queste due parole, nessuno può dirlo con sicurezza ed esattezza. Forse era la rabbia di avere in una malattia senza guarigione, senza via d’uscita. Per un pastore, abituato a parlare, a confrontarsi con le persone, la gabbia di mutismo e sordità, la percezione di essere solo, doveva essere devastante. Il sentirsi un puzzle ogni giorno sempre più incompleto, poiché ad uno ad uno la malattia stava mangiando i suoi ricordi, la sua vita; e allora, diceva a se stesso di essere forte e coraggioso, di continuare ad esprimere se stesso attraverso i suoi quadri. Rabbia più coraggio, uguale espressione, uguale arte: l’equazione della vita e della voglia di vivere e di rivivere ancora attraverso i suoi capolavori. I colori sono forti e accesi, rosso, nero, un accenno di beige. Figure tondeggianti e fasci di linee incrociate. Un ingranaggio, un grande occhio, un serpente. I quadri di Eberhard sono meravigliosi poiché, cambiando angolatura e prospettiva la visone dell’oggetto stessa cambia. Sempre nuovi particolari vengono fuori, in primo piano ed ogni volta è sempre come fosse la prima.
Chiudo il libro e mi riprometto di ammirare ogni dipinto, più tardi, a casa. E’ ora di andare, Müsch mi accompagna alla porta e mi saluta affettuosamente. Io sono ancora immersa nei pensieri. Questa è senza dubbio una storia di grande coraggio ed è una storia che ci insegna a lottare. Lottare per la vita, lottare per un proprio caro, lottare per poter ancora comunicare.
Nel mese di luglio ci sarà un’altra esposizione dei quadri vicino Dresda, data e luogo preciso sono ancora da definirsi, ma sicuramente sarà un’esperienza meravigliosa.
Autore: Alessandra Rago