Quest’anno l’Italia è ancora una volta grande protagonista del festival. Nella seconda giornata di proiezione dei film in concorso, un’anteprima mondiale, un salto di 2600 km, dal teatro della Berlinale (a Berlino) fino a Lampedusa, il regista Gianfranco Rosi, ci presenta il suo film documentario “Fuocoammare”, “Fire at See”.
Una film dalla tematica attualissima: i migranti. Ebbene si, nel mondo, oltre la sicurezza delle nostre case, ci sono persone che la propria sono costretti ad abbandonarla, a fuggire disperatamente, a preferire il mare aperto piuttosto che la terra ferma. Perché “c’è più speranza nel mare con l’aiuto di dio (a ognuno il proprio) che sulla terra, nelle mani degli uomini.”
Il film mi ha emozionata, mi ha scossa, e così anche le altre persone provenienti da tutte le parti del mondo, in platea avevano visibilmente una vela malinconica in volto. Non che non conoscessi la tematica, i telegiornali italiani ed esteri ne parlano ogni giorno, i giornali anche. La cosa differente è la prospettiva cinematografica che colpisce, che stende al tappeto. La sicurezza di una morbida poltrona rossa in un cinema e le immagini di un barcone, precario, che sbattuto dalle onde, affonda.
Non svelerò molto, sono una fautrice del “made in Italy”, e spero che in tanti andrete a vederlo al cinema dal 18 febbraio, ma mi piacerebbe parlare con voi di tre cose fondamentali, che mi hanno colpita, tramortita quasi.
La prima. Il film procede su due binari paralleli; c’è la storia di Samuele, un bambino abitante dell’isola di Lampedusa il cui nonno è pescatore e la nonna, che si prende cura di lui, ha l’abitudine di raccontargli tante storielle sul lavoro del nonno, sulla guerra, sul “fuocoammare”, quel mare che si tingeva di rosso dopo i bombardamenti. Samuele va a scuola controvoglia ma con grande passione si diverte con altri amichetti ad arrampicarsi, a costruire fionde a combattere eserciti stranieri immaginari sui promontori dell’isola. Il focus sul bambino ci permette di averne uno più vasto, più ampio, su questa meravigliosa isola.
Questo paesaggio mozzafiato ci viene presentato dall’alto di un promontorio, al sicuro quasi, nella tenera e divertente ottica di bambino che sa che qualcosa non va nella sua terra, che sa che ogni giorno ogni notte qualcosa di tremendo accade, la sa, lo ha sentito alla televisione e sa che dovrà imparare a conviverci.
L’altro binario, e secondo aspetto fondamentale, è quello della crudele realtà. I documentari sul recupero dei migranti, strappati da morte certa in un mare che non perdona, sono veri!reali! La secca notizia di un telegiornale o di una rivista non è nulla in confronto alla forza distruttiva dei tali immagini. Di tali voci. Dalle conversazioni via radio con barconi in tracollo, ad immagini di persone strappate alle grinfie della morte e portate in salvo. Ai tanti che non ce l’hanno fatta e sono morti nel tentativo.
E allora il mio terzo punto cardine è questo, in un mondo che continua a vedere olocausti tutti i giorni, in un mondo in cui la vita umana viene considerata un mero giocattolo nelle mani di “coloro che contano”, in un mondo in cui è meglio il mare aperto: è più sicuro il buio, le profondità,che la luce, che la propria terra; allora dobbiamo rinfrescare la nostra memoria e ricordare cosa abbiamo promesso e cosa promettiamo ogni anno durante la celebrazione della Shoah. Ogni anno promettiamo di non dimenticare, di avere sempre presente quello che è stato per non ripeterlo in futuro, mai più. I testimoni dell’olocausto ci stanno lasciando e il passato sta ritornando. Le nostri menti, le menti dei potenti, “di chi conta” – come se ci fossero persone di prima scelte ed altre di seconda – sono annebbiate dalla sete di potere di egemonia, di denaro. Il XXI secolo è il nuovo medioevo della società, un medioevo tutto nuovo, in cui la tecnologia va avanti e l’umanità va indietro.
E allora, mai più attuali furono i versi di colui che tale scempio lo aveva vissuto e ci aveva lasciato un monito, lanciato quasi una maledizione:
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
Primo Levi
Ebbene si, mi ripeto, mai tali versi furono così attuali. Ma non ancora tutto è perduto. Insito nell’uomo è racchiuso il seme della distruzione ma anche quello della creazione. Noi possiamo cambiare il mondo, noi possiamo migliorarlo. La domanda che potrebbe sorgere spontanea è: e come si fa? Come raggiungiamo tale obiettivo? Come può cambiare un singolo cittadino il mondo intero?
Non è facile, ma Rosi un po’ ci è riuscito. Con il suo film, quasi tutto in dialetto, sottotitolato alla Berlinale in tedesco ed inglese ha raggiunto una platea internazionale.
Come lui stesso ha detto sul palco della Berlinale, dopo la proiezione del suo film: “Siamo a conoscenza del fatto che un film non può cambiare la situazione attuale delle cose, ma può creare più consapevolezza tra le persone” e la consapevolezza potrebbe smuovere sempre i cosiddetti “che contano” e curare il mondo da questa brutta malattia. Noi tutti nel nostro piccolo possiamo fare qualcosa. Ricordate: ogni essere umano ha poteri ILLIMITATI!
Stay tuned!
Autore: Alessandra Rago
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