Prima proiezione al Cinema Babylon di Documenting Italy, un’altra delle cinque sezioni dell’Interfilm Festival di Berlino 2016 dedicate ai cortometraggi italiani. I sei documentari selezionati, nell’ intenzione della curatrice Sarah Dombrink, si focalizzano su realtà locali e su aspetti poco conosciuti al di là delle frontiere del “bel paese”. Si è rifuggito lo stereotipo, il cliché, sia positivo che negativo.
“L’ultimo proiezionista“, regia di Vito Palmieri, ci presenta la storia di Paolo Romagnoli, proiezionista in un piccolo cinema parrocchiale di Bologna, alle prese con il passaggio dalla pellicola al digitale. Un passaggio inevitabile, ci spiega il regista presente in sala, inevitabile e importante come lo fu in passato il passaggio dal muto al sonoro e dal bianco e nero al colore. Però Romagnoli lo soffre, così come molti suoi colleghi, pur apprezzandone la praticità, perché sente di perdere il fascino e la responsabilità di un mestiere vecchio e nobile e anche faticoso, ma che proprio nella fatica e nell’abilità del proiezionista acquisiva un suo significato. Il corto è a tratti nostalgico ma anche positivo, aperto al futuro. Il documentario, ci spiega il regista, ha avuto spunto da un articolo di Repubblica. Purtroppo, aggiunge, molte piccole sale indipendenti hanno sofferto e soffrono il passaggio al digitale, poiché questo comporta un costo, un investimento in nuovi macchinari che molte piccole realtà non possono permettersi e quindi sono costrette a chiudere. Di Bologna ci parla anche un altro corto: “È accaduto in città”, di Noemi Pulvirenti, bolognese di adozione da dieci anni. Il suo documentario è stato prodotto da lei stessa, ci tiene a precisare, senza finanziamenti. È un film indipendente e accessibile a tutti on line, ci spiega, perché lei non crede nel copywrite. In questo cortometraggio Luciano Nadalini, fotografo del quotidiano l’Unità, ci racconta, attraverso la sua esperienza di vita e le sue foto, la sua Bologna dai primi anni 80 fino ad oggi. Dall’ attentato al treno 904 del 1984, che lui, all’ epoca ancora un metalmeccanico che fotografava per passione, documentò in loco con fotografie che vennero pubblicate in varie testate e che gli aprirono le porte ad una brillante carriera professionale, alla nascita del movimento punk negli anni ‘ 80; dal moto studentesco Pantera all’ occupazione di spazi storici come l’Isola nel Kantiere, esperienza ricca e forte che vide nascere molti movimenti artistici e musicali importanti. E poi il periodo della banda della Uno bianca, con il terrore che attanaglia la città per un decennio, e i matti di Reggio Emilia, un ospedale psichiatrico di cui lui, grazie alle sue foto agghiaccianti, provocò la chiusura. È un cortometraggio accurato che ci riporta in immagini una città emblematica come Bologna, con la sua storia spesso cruenta e tragica ma anche laboratorio di ribellione e di avanguardie. Un pezzo d’ Italia da cui non si può prescindere per capire il nostro paese.
Altri due corti trattano invece il tema dell’immigrazione: “Irregulars“, regia di Fabio Palmieri, e “Giallo a Milano”, di Sergio Basso e Lorenzo Latrofa. Lo fanno con uno stile e da prospettive diversi. ” Irregulars” ci mostra immagini di una fabbrica di manichini, manichini disposti, aggiustati, accatastati e ammucchiati in uno spazio anonimo, e contemporaneamente una voce fuori campo ci racconta in prima persona il suo viaggio da clandestino, sotto un camion prima e in un centro di smistamento poi, con il terrore di essere rispedito a casa, nel villaggio in cui ” preferirebbe morire che tornare”, perché la guerra fa più paura della morte. La voce ci racconta della perdita della dignità nel diventare esseri ” anonimi”, rifiutati da tutti, senza una casa accogliente dove tornare e senza più un futuro in cui sperare. I manichini diventano una metafora molto forte: l’individuo ridotto ad un corpo da dover gestire, spedire o ricacciare, un corpo senza più anima né sogni.
“Giallo a Milano“, invece, è un cortometraggio- documentario d’ animazione. Racconta la storia di un giovane immigrato cinese che decide di fuggire dal suo piccolo villaggio e che dopo una serie di avventure rocambolesche ed illegali arriva a Milano dal fratello dopo una sosta in Russia. Entra a far parte della comunità cinese, quella criminale però, e diventa testimone di un fatto di sangue brutale e gratuito che lo spinge al cambiamento. Il racconto è serrato ed efficace, ricorda certi “gangster films” americani. E il finale è un messaggio di speranza. Un fatto storico viene invece raccontato in “Medusa”, corto d’animazione diretto da Fredo Valla e Francesco Vecchio, che ripercorre l’abbattimento del sottomarino italiano Medusa da parte della flotta inglese nel 1942. Si alternano interviste vere ai protagonisti ancora vivi, che appaiono come delle sagome sfuocate dentro cornici disegnate, alla narrazione animata della vicenda. Francesco Vecchio ci confida che nell’intenzione dei registi doveva essere la parte animata a dare respiro alle interviste dei protagonisti, e invece è accaduto il contrario: è la parte documentata che dà respiro al racconto animato. Il corto e diviso in cinque episodi, che ripercorrono una tragedia dimenticata.
E infine “Unfinished Italy”, di Giorgio Felici, ambientato in Sicilia, terra delle opere incompiute, delle strade e dei cavalcavia interrotti in mezzo ai campi. L’ “Incompiuto Siciliano” a un certo punto viene definito “il movimento architettonico più importante in Italia dal dopoguerra”. È un viaggio tra le rovine e le macerie di costruzioni che avrebbero potuto essere ma che non sono, con i cittadini oramai abituati che tentano di dare un senso all’incompiuto, provano ad integrarlo nella loro vita. È un documentario ironico, divertente e a tratti paradossale. Cerca la bellezza nelle rovine abbandonate e degradate, tra cittadini consapevoli e rassegnati e quelli che fanno di necessità virtù: come la casa con giardino costruita quarant’anni fa su un cavalcavia interrotto, e che sta ancora là, abitata. Alla fine il ritratto è molto meno amaro di quello che si potrebbe pensare, anche e soprattutto grazie allo spirito indolente ed ironico del popolo siciliano. Diventa una riflessione filosofica e surreale sul senso del frammentario, dell’abbozzato e dell’incompiuto, su ciò che si nasconde dietro il non volere terminare una cosa iniziata. Perché la bellezza forse è quello che potrebbe essere ma che ancora non è, è potenziale abbozzato su cui poter fantasticare.
Autore: Barbara Ricci