Mascherina sì, mascherina no, mascherina assolutamente. Chirurgica, di stoffa, ffp2, fatta con la carta forno. Non la toccare. Buttala dopo l’uso. Non buttarla, non se ne trovano. Sterilizzala, anche se forse non funziona. Quante ne abbiamo sentite nelle ultime settimane?
E probabilmente molti di noi sono ancora molto confusi in merito, ma una cosa penso sia chiara a tutti: nei prossimi mesi -e chissà ancora per quanto- le mascherine faranno parte della nostra limitatissima vita al di fuori delle quattro mura.
Ma c’è un aspetto poco esplorato che credo condizionerà ancora di più le nostre interazioni. L’ho capito la settimana scorsa, mentre ero in fila per entrare al supermercato.
La fila era lunga e non capivo perché per un tratto procedesse sbilenca, allungandosi in mezzo alla strada, per poi tornare sul marciapiede. “Stravaganze da uscite in quarantena” mi sono detta mentre andavo a prendere il mio posto in coda. Dopo una ventina di minuti ho capito il perché di quella deviazione. Era una giornata inusualmente calda per il mese di aprile, il sole picchiava forte, via la giacca, via la felpa, via la mascherina…ah no, quella mai, insomma, anche mezzi ignudi sembrava di essere sulla spiaggia a mezzogiorno.
Per un breve tratto della fila però, l’ombra degli alberi del parchetto vicino raggiungeva la carreggiata, spostandosi quindi in mezzo alla strada, si poteva trovare riparo dalla canicola per qualche minuto. Niente stravaganze da uscite in quarantena perciò, solo furbizia e buon senso!
Dopo circa quaranta minuti di attesa e fiumi di sudore, soprattutto all’interno della mascherina, mi trovo finalmente in testa alla fila, pronta all’ingresso nel super.
Arriva un signore, munito di mascherina anche lui e vedo che fa per mettersi in fila dietro di me, poi si blocca e mi domanda “È lei l’ultima della fila?”.
In effetti la persona che attendeva dietro di me era piuttosto lontana e creava un buco per cui si poteva pensare che fosse in fila per il negozio poco distante. Rispondo al signore con un “No” contraendo gli occhi e storcendo le labbra in segno di dispiacere.
Lui sobbalza e mi dice “Quindi vuol dire che la fila è tutta questa e continua dietro l’angolo?”.
Con il volto sempre più corrucciato gli rispondo “Sì”.
Mi ringrazia, sento che blatera qualcosa, ma non capisco e va via di corsa.
Mi direte, cosa c’è che non va in tutto questo? Ve lo dico subito.
Non so che faccia avesse questo signore, non saprei dire quanti anni avesse e probabilmente lui direbbe lo stesso di me. Ma questo non è così indispensabile, possiamo anche arrenderci all’idea di andare in giro più anonimi e meno distinguibili.
Quello che, giuro, mi è dispiaciuto, ripercorrendo mentalmente il nostro brevissimo dialogo è che, nonostante il mio viso rammaricato, il messaggio trapelato dalle mie risposte, private dall’espressione, è stato di chiusura e forse addirittura di irritazione.
Mi spiego meglio, il mio “No” da intendere come “No, mi dispiace tanto, ma non sono io l’ultima della fila”, senza che si potessero vedere le smorfie del mio viso era equivalente ad un “No, brutto cretino, certo che non sono io l’ultima! Cosa credi che siamo tutti qui a prendere il sole da quaranta minuti?”.
Ed ancora, il mio successivo “Sì”, indicativo di “Sì, signore, purtroppo è così! C’è una lunga e bollente attesa di almeno 40 minuti, ahimè! Si armi di tanta pazienza” è invece passato, senza l’aiuto della mimica, per un “Sì, sì, e sì, brutto scemo! Invece di continuare a fare domande, pedala dietro l’angolo e soffri anche tu come noi, invece di fare queste domande da ebete!”.
Vi potrà sembrare esagerato, ma vi assicuro che è proprio così. Senza poter contare sull’aiuto della miriade di muscoli facciali, la nostra comunicazione è depotenziata e a volte persino distorta.
Se non mi credete, fate una prova davanti allo specchio con la mascherina o anche solo coprendovi con la mano il viso dagli occhi in giù. Certo, il tono della voce può venirci in aiuto, ma non è abbastanza. Perché, sì, gli occhi sono indubbiamente lo specchio dell’anima, ma le guance, la fronte che si corruga, i denti che mordono il labbro, le fossette che ridono o anche solo il naso che si arriccia, sono le impalcature su cui è fissato quello specchio, i marmi che lo valorizzano, le mensole che lo adornano.
Oltre che contrarre il coronavirus o che lo possa contrarre qualcuna delle persone che amo, quello che temo dei prossimi mesi è il non riuscire più a mostrare i miei sentimenti, il non riconoscere più le persone per strada, il poter essere fraintesa o addirittura l’essere “azzerata” da un involucro che mi tappi la bocca, ma anche l’anima. A quanto pare non sono stata l’unica ad averlo pensato. Qualche giorno fa ho letto la testimonianza di un uomo guarito dal coronavirus dopo essere stato per un lungo periodo in terapia intensiva. Diceva, parlando dei medici che lo avevano assistito per tutto il periodo: “Vorrei ringraziarvi ad uno ad uno, ma non so i vostri nomi, non conosco i vostri volti, so che se anche ci incontrassimo per strada non vi riconoscerei. Ma sappiate che è a voi che penso ogni giorno, siete voi che considero i miei angeli custodi, è a voi che vanno le mie preghiere”. Senza dubbio, un bellissimo messaggio di amore incondizionato.
Forse tra qualche mese la penseremo tutti come questo signore, ma, lo confesso, io al momento soffro perché ho ancora voglia di scrutare il volto dei passanti, di cercare tra la gente le persone che amo, di regalare un sorriso a chi mi fa una gentilezza, una linguaccia a chi fa il cretino, di incurvare le labbra all’ingiù se qualcosa che vedo mi rattrista, e voglio che il mondo lo veda, mi veda.
Forse tra qualche settimana andrò in giro con dei piccoli cartelli: “Sto ridendo”, “Labbra a cuoricino, ti ho mandato bacio”, “Mi mordo il labbro inferiore, sto pensando al da farsi” etc. etc.
Ma per ora, in casa al sicuro col volto libero, ho la fronte aggrottata, un occhio più chiuso dell’altro, le labbra protese in avanti, mentre scrivendo mi domando: come faremo a continuare ad essere noi stessi attraverso una mascherina?