“Devi venire alla presentazione del mio libro!”, mi scrive Irene Salvatori un paio di mesi fa su Messenger.
“Un libro?”, rispondo io.
Io nemmeno le ho mai stretto la mano ad Irene: dovevamo incontrarci tre anni fa a Neukölln, ma non ci siamo mai riuscite. Io presa dal mio arrivo a Berlino e lei con i suoi tre figli da crescere, un caffè e altre imprese eroiche da mandare avanti, tra cui la traduzione di testi, saggi e romanzi dal polacco all’italiano.
“Si, il mio primo libro”, mi risponde, “vieni?”.
“Certo che vengo! Sarà questa finalmente l’occasione di conoscerti personalmente”.
REWIND
Irene mi è stata presentata da Paola, un’amica comune, nonché compagna di qualche avventura italiana nel periodo nel quale cambiavo per la quarta volta la mia vita, prima di venire a Berlino.
“Lì a Berlino devi conoscere una bomba di donna, Irma”, mi suggerisce Paola non appena mi trasferisco. Me lo dice con la consapevolezza che Irene, in Germania ormai da più di dieci anni, non potrà che stupirmi e darmi suggerimenti utili per la mia avventura.
Ma questo incontro non è mai avvenuto, appunto, e’ stato lasciato incompiuto nel cassetto delle cose da fare.
Nel frattempo Irene lascia Berlino e si trasferisce in Francia. Le chiedo perchè via Messenger e lei mi risponde: “Per imparare tutti bene il francese… ma poi torno”.
Scatta la curiosità: una donna, un libro dedicato a sua madre, una presentazione, un cambio programma, una connessione veloce con tutta la mia vita, la sensazione che ciò che leggerò è già stato parte di me.
“Non è vero che non siamo stati felici” è il titolo del libro di Irene.
Il dolore per la morte di sua madre la porta a condividere in uno scritto, breve all’inizio e poi trasformato in un romanzo-diario epistolare, nel quale i nodi alla gola si susseguono a interruzioni di respiro, il dialogo con sua madre è forte, ed è impossibile non trovare assonanza con i propri pensieri: quelli rimasti solo pensati, quelli dedicati, detti, sussurrati ai propri cari assenti, lontani, persi, lasciati, morti.
Questa non è la recensione del suo libro.
È, e vuole rimanere, un piccolo omaggio ad una donna con la quale conversare anche solo attraverso una video chiamata Skype ha qualcosa di magico.
Irene è di una disarmante semplicità, e quando le parli sembra di averla lasciata il giorno prima dopo una serata a vino e formaggio su uno dei suoi divani davanti al camino, con i suoi Bracchi Ungheresi acciambellati ai tuoi piedi.
IN TERRA STRANIERA
Ritrovo me stessa nelle sue parole, quando racconta il suo viaggio verso terra straniera.
Chi deve ricominciare deve “imparare a muoversi e abituare gli occhi” a qualcosa di nuovo, al disumano dolore, al karmico buio che circoscrive l’attimo di assenza che pervade ogni decisione importante. Tutto questo come “spazio per la libertà”, dice lei.
In questo black-out linguistico, lei sente di potersi nascondere perchè nessuno la vedeva: “… potevo piangere ridere, potevo addormentarmi o non riuscire a prendere sonno, era un vivere mio e niente mi riportava al mondo del prima-di…”.
Una sensazione che appartiene a chi è costretto a separarsi, a chi decide di cercare se stesso in una terra straniera e lascia che il silenzio lo pervada per forza di cose se non conosci la lingua del posto in cui decidi di andare a passare quel poco, quel resto o quel tutto della tua vita.
Ma quel silenzio si può rompere dice Irene: “… stava solo a me romperlo…, lo tenevo dentro perchè non mi faceva paura, era un silenzio in una lingua nuova, dove ancora la paura non era ancora arrivata perché ancora neanche lo sapevo come si diceva paura. In quel nuovo paese il giorno che finalmente avessi imparato a parlare anche il suono della mia voce sarebbe stato nuovo…”.
Imparare a riconoscersi in una nuova identità è stato il lavoro di trasformazione del dolore e di se stessa di Irene. Come non riconoscersi? Come non percepire sulla propria pelle quella sensazione di vuoto?
BRADAMANTE
Irene madre non crede di essere così brava, ma agli occhi di chi la vede e alle orecchie di chi l’ascolta pare esattamente il contrario. Del resto chi si crede di esserlo veramente? Ma non è proprio mentre lo diciamo che dimostriamo l’esatto opposto?
Irene deve ricominciare da capo mentre dà spazio al suo dolore, dalle ”cose piccole” come saper camminare dove si vuole senza perdersi. Ricominciare ad essere figlia per poter essere madre.
Comunica con sua madre attraverso un’agenda, un totem con il quale simula il contatto interrotto, spezzato dal male che non perdona, da una lontananza che dissimula in continuazione nell’attesa del suo ritorno.
Scalpita, impreca quasi e brandisce la spada contro chiunque calpesti il buono che difende con la Bradamante folle minacciando il taglio del capo: “… che io un giorno o l’altro faccio come Bradamante e taglio la testa a tutti. Non i bimbi, ai bimbi no, mamma, dai…”.
Mentre la parte più profonda di sé inarca il busto in avanti, e tronfia risponde alle provocazioni che essa stessa si dà nei momenti di giusta contrapposizione con il suo dolore, con la sua profonda malinconia. ”Perchè a cosa gli serve la testa se non per parlare con questi bimbi, per guardarli, per sorridere con loro e scherzare e gonfiarsi di gioia per il solo averli davanti.“.
L’orfana di madre che si crede zoppa, ma zoppa non è.
Respiro…
Bradamante si sveglia quando le si mischiano le carte e lei crede di non potercela fare, come un sistema che le da errore quando la malinconia si fa forte, e la paura di non essere all’altezza è acquattata sulla spalla.
E POI HEIMAT
Ho imparato questo termine per la prima volta con Lei.
Nella ricerca di un’identità multilingue le parole che impari non sono mai abbastanza. Mi ha affascinato questo termine che Irene descrive in ogni suo aspetto nel suo libro: “Heimat per me era ancora tornare a casa da scuola e trovare la padella sul fornello coperta, era il gesto di alzare il coperchio e trovare la mia metà di pranzo di quello che avevi cucinato per noi, era saperti su, in camera tua, era alzare la voce e dirti Son tornata…”.
Nel linguaggio comune Heimat si applica al luogo in cui una persona è nata, e nei luoghi delle prime esperienze di socializzazione che modellano identità, carattere, mentalità, atteggiamenti e visioni del mondo.
“ll mondo perfetto”, forse.
Ma Irene non cerca il mondo perfetto.
Cerca un posto felice, una casa dove crescere i suoi bambini e dove lasciarsi alle spalle il peso di momenti che ha scelto di vivere anche con persone che non l’hanno resa felice, e di cui riesce a sbarazzarsi senza voltarsi indietro grazie ad un Nemo che nella sua vita ha fatto la differenza e che l’ha aiutata a ritrovare la consapevolezza perduta.
Da prima trova una dimora meravigliosa: ”… con le peonie in giardino che ancora ci penso, aveva una scala tonda tutta foderata di carta da parati rosa a fiori e che a salirla mi sembrava di avvitarmi dentro una scatola di biscotti…”.
E poi: “… le altre più o meno strappacuore con finestre antiche di legno sotto i pini o con strani pavimenti plastificati e giovanissime proprietarie con le unghie verdi e i capelli bianchi…” .
Finché: “… siamo arrivati qui, qui dove ci siamo fermati ad abitare. Qui ad Heimat. Giuro mamma, si chiama persino così, è proprio il nome della strada, perché io sono testarda e son brava a fare lo slalom con la fortuna, lei si presenta e io la schivo, come un paletto. Invece questa volta la fortuna l’ho presa e me la sono messa in tasca, ci ho creduto…”.
Heimat è anche a Berlino. Esiste, come esiste la possibilità di trovare, a forza di cercare, la felicità. L’Heimat… che è “il filo rosso di tutto questo lavoro”.
James Hillman descriverebbe tutto questo parlando del “Daimon”, un compagno con il quale nasciamo, una sorta di contenuto della nostra immagine o di disegno che ognuno di noi è destinato a vivere sulla terra quando nasce, che è unico per ognuno di noi, il portatore del nostro destino.
E Irene perde l’Heimat, il suo daimon, nel momento in cui sua madre muore: “… nel momento in cui la vita ti andò via dal corpo io avevo perso la mia Heimat. Da quel letto accanto alla Tv dove moristi si era aperta una crepa sotto i miei piedi, le mattonelle di graniglia si erano spezzate e sbriciolate fino a scomparire e con loro il pavimento, il senso del tempo, dello spazio e soprattutto l’aria, l’aria non c’era più…”.
Devo fermarmi un attimo.
Gli incastri di questa storia sono così connessi al mio vissuto che di nuovo rimango senza aria e gli occhi si gonfiano di acqua che brucia di un calore madido di amore, di dolore, di gioia che ha spinto tutta la mia vita.
Penso che la maledizione più grande di un essere umano sia nel non trovare nel proprio cammino questi segnali, così evidenti che rendono speciale la propria esistenza e che fanno comprendere il proprio disegno.
EPILOGO
“Non stavo bene in Italia lo sapevi. In Italia ancora oggi mi sento fuori luogo… quando rientro in Italia mi sento come nell’ingresso di casa di qualcuno. Come se fossi a fare una visita, suono il campanello, mi aprono, mi fanno entrare, ma poi aspetto… Mi viene il dubbio che non ci sia un appuntamento e mi aggrappo al pacchetto di bignè che tengo in mano”.
C’è una connessione molto chiara in tutto questo.
Qualcosa che ci appartiene e che unisce i puntini come quei giochini sul giornale del cruciverba.
La consapevolezza di Irene è come un dono, e nelle sue parole si svela la similitudine con ciò che accade alla maggior parte di noi, orfani degli affetti, orfani di madri e padri lasciati in Patria, orfani di Patria. Ma c’è anche l’amore, la passione, la paura, la malinconia e il dolore per ciò che muore o si lascia lontano.
Devo riprendere da dove ho lasciato.
Devo controllare il mio calendario delle lezioni di inglese e tedesco. Devo ricominciare a dire “paura” in tedesco e in inglese per imparare a riconoscerla nelle lingue che ho deciso di parlare per interrompere questo silenzio assordante.
Devo ripiegare le cose di mia madre morta quattro anni fa, lavarle e metterle in una scatola con la canfora profumata.
Devo posare la spada e abbracciare Irene non appena la vedrò…
Venerdì 22 Novembre 2019 ore 19:30 alla presentazione del suo libro a Mitte.
https://www.facebook.com/events/377124483233164/
La presentazione del libro “ Non è vero che non siamo stati felici “ di Irene Salvatori edito da Bollati Boringhieri (2019), moderatore Andreas Rostek, si terrà:
Venerdì 22 novembre 2019 alle ore 19.30
presso la Libreria Mondolibro di Torstrasse 159 – 10115 Berlino
CONNESSIONI
È una rubrica che rappresenta l’anello di congiunzione tra culture e passioni diverse che si incontrano nei luoghi dove le persone viaggiano, vivono e hanno vissuto. I protagonisti hanno affrontato ostacoli, seguito passioni e fabbricato sogni, custodendo e condividendo il segreto di un’esistenza unica. Leggi gli altri articoli