Ricordare il passato è un bene. La storia si studia perché serbiamo memoria di quanto l’umanità ha fatto di grande e di terribile e ci chiama come parte in causa. Primo Levi ci ricorda che “chi dimentica il proprio passato è destinato a ripeterlo”, ed è per questo che, a memoria del recente passato, alcuni Paesi –in particolar modo la Germania- hanno eretto monumenti e hanno reso il passato, in qualche modo, presente e visibile.
E se, invece, il ricordo fosse percepito come un’onta insopportabile? Se, invece, la cura fosse dimenticare, dimenticare non la storia –ché non si può: le cicatrici restano- ma sé stessi, la propria appartenenza al popolo malvagio? Si può vivere senza una storia che ci identifichi?
Questo è l’interrogativo che ci pone il film di Barbet Schroeder il cui titolo, Amnesia, evoca quel particolare tipo di dimenticanza, che è l’assenza della memoria, la sua estromissione.
In breve, la storia. Ibiza, 1990. Martha (interpretata da Marthe Keller) abita da sola in una casa sul mare, e conduce –lo si intuisce man mano- una vita estremamente semplice, rifuggendo comodità e relazioni (ne ha pochissime), immersa tra mare e natura, da cui ricava il suo sostentamento. Martha è tedesca, lo scopriamo quasi subito. Ma parla solo inglese, e della civiltà che –per mezzo di un parente che la esorta a tornare a Berlino per questioni di eredità- la chiama, non vuole saperne. Uniche tracce della storia, una foto di un uomo e un violoncello. È la storia, però, a venirla a cercare, nei panni di Jo (Max Riemelt), un giovane dj berlinese che si insedia in una casa vicina e che, come se fosse uno strumento del destino, costringe Martha (e se stesso) a farci i conti, con il passato.
Entrata in una relazione sempre più profonda con Jo, Martha si trova di fronte alle scelte radicali compiute anni prima quando, subito dopo la guerra, scelse di abbandonare per sempre la Germania –e con essa la sua lingua e tutto ciò che avesse una provenienza tedesca- per manifestare il suo assoluto diniego e la sua radicale alterità al nazismo. Murata nel suo rifiuto, Martha tuttavia permette, senza avvedersene dapprincipio, che Jo apra larghe brecce nel muro e lascia che qualche melodia illumini quegli spazi lasciati in silenzio per decenni. Scopriamo così che lei non ha mai abbandonato né la musica né la poesia: Eichendorff, lei, lo legge in tedesco. È come se la sua anima fosse intrappolata in un dovere a cui lei si aggrappa con tutte le sue forze, con la forza della rabbia di chi ha assistito, inerme e senza la forza di comprendere, allo scempio di due popoli: le vittime e i carnefici. Al tempo stesso, però, non si rassegna a scordare (la cui radice è cor, cordis, cuore) la bellezza e la gioia che le dà quella stessa cultura. Sceglie di dimenticare (la cui radice, come in amnesia è mens, mentis); sceglie una volontaria amnesia.
Jo, lentamente, la coinvolge nella sua attività di ricerca musicale ed è singolare che sia proprio la musica a far breccia nell’anima ghiacciata di Martha; una disattenzione rivela a Jo che lei è tedesca, ed è in tedesco che lei gli racconta la storia straziante dell’uomo nella foto: era il suo amatissimo maestro di violoncello, morto a guerra praticamente finita, in un Lager. Come può, gli chiede, parlare la lingua dei nazisti?, come non essere arrabbiata per sempre?
Jo, da parte sua, è testimone della fine del Muro di Berlino e, candidamente confessa a Martha che la sua generazione non ne può più di quella storia.
Più profondi sono i varchi che si aprono nelle sue difese (il suo abituale fornitore di vino le dice keep sparkling!, continua a splendere!; Jo la coinvolge nella preparazione di una serata speciale nella discoteca “Amnesia”), più Martha restituisce al mondo qualcosa di sé. Primo fra tutti, la musica meravigliosa che riprende a suonare su quel violoncello fino a quel momento abbandonato.
Ma la domanda che sta al fondo di tutte –non tornare è affrontare o scappare?- trova la sua risposta infine, ed è, come sempre nelle grandi domande, una risposta aperta, senza soluzione.
A Ibiza arrivano la mamma e il nonno di Jo (uno straordinario Bruno Ganz), per cercare di convincere il ragazzo a tornare, ora che la Germania sta rinascendo.
Martha non resiste alla loro lettura “riconfortante” della storia passata (eh, ma sono passati tanti anni, ormai!) e, lasciata cadere ogni finzione, si rivolge a loro in tedesco. Il nonno, pressato dalle spietate domande di Martha circa le “buone storie di salvataggio di ebrei” che aveva narrato da sempre al nipote, crolla. No, non ho salvato nessuno. No, non ero cattivo. Sì, le ho viste morire, quelle persone e no, non ho fatto niente. Ho avuto paura.
La mamma di Jo, invece, accusa Martha di codardia e difende il proprio coraggio. Martha, le dice, lei ha solo cercato di lavarsi la coscienza. A che è servito? Sono rimasta: questo mi rende colpevole?
Non c’è risposta a queste domande. Jo è distrutto dal castello di menzogne raccontategli dal nonno e non intende più tornare in Germania; Martha, invece capisce che la sua rabbia –che era tutto quel che aveva con sé nel 1945, a 16 anni- l’ha resa ingiusta e non le ha fatto imparare niente. Ora, sa. Sa che la fragilità e la paura sono umane e non escludono possibilità di riscatto né bontà d’animo.
Caduti i muri, si accetta la propria storia e si intravvede in essa un senso: Siamo già stati tutto ciò che dovevamo essere l’uno per l’altra.
IM ABENDROT
Wir sind durch Not und Freude Rings sich die Täler neigen, Tritt her und lass sie schwirren, O weiter, stiller Friede, (Joseph von Eichendorff) |
AL TRAMONTO
Tra affanni e gioie Tutt’intorno le valli digradano, Vieni qui, lasciale volare, O immensa e silente pace! (Traduzioni di Luigi Bellingardi) |
Autrice: Giulietta Stirati