Ciò che ci definisce rispetto al mondo animale è il linguaggio. Attraverso il linguaggio definiamo noi stessi e il mondo esterno a noi, ci diamo un’identità rispetto agli altri e scegliamo a quale tipo di vocabolario attingere a seconda di quello che intendiamo rimarcare, più o meno consapevolmente. Possiamo scegliere un linguaggio che unisca, o un linguaggio che divida. Vi capita mai di sentire che le parole che state usando non corrispondono più a quello che sentite? E che quello che sentite non trova più le parole adatte?
Mi viene in mente una poesia di Gianni Rodari, “Parole” (da “Il secondo libro delle filastrocche”)
Abbiamo parole per vendere
parole per comprare
parole per fare parole
ma ci servano parole per pensare.
Abbiamo parole per uccidere
parole per dormire
parole per fare solletico
ma ci servono parole per amare.
Abbiamo le macchine
per scrivere le parole
dittafoni magnetofoni
microfoni telefoni.
Abbiamo parole
per fare rumore,
parole per parlare
non ne abbiamo più.
Mi soffermerò su due aspetti che mi coinvolgono direttamente, sia nel lavoro sia nella vita: la comunicazione non ostile e il sessismo nel linguaggio quotidiano. In entrambi i casi sembra che l’abitudine a forme stereotipate di comunicazione abbia portato a smarrire il nesso causale tra linguaggio e pensiero. Faccio un esempio per chiarire: se dico che la signora che mi ha tagliato la strada (facendomi frenare di botto con tutta la conseguente tachicardia ecc) è una “zoccola”, che cosa intendo, esattamente? E perché per esprimere il mio dissenso ricorro a questo genere di linguaggio?
Comincerò facendo una breve disamina del linguaggio sessista. La società attuale –parlo della società occidentale, “emancipata”- utilizza un linguaggio che trae le proprie radici da secoli di dominio del maschile sul femminile, espressione di una visione del mondo basata sul patriarcato. Potere, religione, giustizia, assetti politici ed economici, assegnazione di ruoli, divisione dei compiti, immaginario, arte e cultura: in ogni campo dell’espressione e dell’esistenza umana la donna ha occupato un ruolo subordinato all’uomo: il linguaggio ne è stato (e lo è ancora oggi, in grande parte) a un tempo l’espressione manifesta e ciò che ne ha favorito il radicarsi nel tempo. In questo modo linguaggio discriminatorio e visione del mondo discriminatoria si sono rafforzati a vicenda.
Scegliamo un ambito in cui è molto facile riconoscere le tracce di questa mentalità, e cioè quello dei mestieri. Una rapida disamina dei mestieri in cui si richiedono forza, decisione, controllo, autorità, carisma sono percepiti come naturalmente maschili (anche se ne esiste il corrispondente femminile): dirigente, sindaco, presidente, avvocato, direttore, autore, dottore, notaio, amministratore, e così via. È recente la polemica intorno alla liceità o meno dell’espressione sindaca riferito alle donne sindache di città come Roma o Torino. “È brutta/suona male/ si è sempre detto sindaco/ma che siete fissate”: sono alcune delle battute rivolte a chi difende la possibilità di usare il femminile di nomi storicamente retaggio maschile. Esistono, perché non usarli? Non si tratta di sterile polemica: si tratta che la società è ancora orientata ad assegnare alle donne ruoli marginali (professoressa, maestra, infermiera).
A fronte delle proteste e delle iniziative delle donne per vedere affermata una reale parità di diritti, moltissime sono le reazioni negative: “femministe isteriche”, “paranoiche”, “ma fattela, na risata”, per non parlare di commenti ben peggiori e che arrivano a colpevolizzare le donne di “essersi andate a cercare” la morte orribile che uomini infliggono loro.
Ma perché c’è tanta resistenza non dico a riconoscere, ma a cambiare? Nel senso: possibile che la mentalità abbia una struttura così rigida da aver reso invisibili le componenti sessiste e patriarcali? Come fare per riconoscerle e cambiarle?
Un modo c’è: è nel linguaggio, nella struttura della lingua che usiamo tutti i giorni, che si può riconoscere la visione della relazione uomo/donna come rigidamente binaria (tanto che all’omosessuale non è riconosciuta un’identità poiché non rientra in questo schema) e in cui il maschile domina il femminile. Dalla banalissima concordanza, a cui nessuno fa caso perché percepita come ovvia (i bambini e le bambine sono belli), al diverso significato della medesima parola a seconda che sia femminile o maschile, alla formazione delle parole, alla loro storia.
Farò qualche esempio per l’italiano e per il tedesco (per quest’ultimo, mi è stato fondamentale l’aiuto di una meravigliosa amica, studiosa attenta e sensibile, Chiara Dezi).
- Diverso significato della medesima parola: cortigiano/cortigiana; intrattenitore /intrattenitrice; anche scapolo-scapolone (accezione positiva)/zitella-zitellona (accezione molto negativa)
- Associazione di valori positivi a parole come maschile, maschio, männlich, e associazione del loro “contrario“ ai corrispondenti femminili, come femminile, weibisch per indicare un uomo che “non si comporta da uomo” (derivato da “das Weib”, nome neutro per indicare la “femmina“), o dämlich (stupido; usato per donne come per uomini; deriva dal sostantivo Dame)
- Formazione delle parole: nel tedesco è rimasta la classificazione neutra della donna comune (das Weib), distinta dalla Frowe (die Frau), la cui etimologia tuttavia è un derivato della parola Frô (nel suo originario significato di Herr, come si può evincere dalle parole Fronleichnam, Frondienst relative al lessico delle festività cattoliche)
- Spesso le parole femminili –in tedesco come in italiano- si formano da una base maschile (suffisso –in per il tedesco, suffisso –essa in italiano, per fare solo uno die tanti esempi possibili)
- Interessanti sono le connotazioni date ai nomi di animali
Die Katze |
Una bella donna viene definita come una “Katze”. |
Die Schlange |
Un insulto per entrambi i sessi: Er/Sie ist eine Schlange |
Die Sau |
Mentre per l’animale “maiale” si usa il maschile “der Schwein”, la versione femminile viene usata per etichettare in senso dispregiativo entrambi i sessi. |
Die Gans |
Usato per offendere donne |
Die Ziege |
Usato per donne in tedesco; in italiano usato per donne e uomini |
Die Kuh |
Usato per donne |
Basterebbero questi pochi esempi per capire quanto la lingua sia intessuta di discriminazioni non più percepite come tali: è da qui che, secondo me, si dovrebbe partire per provare a incidere sulle strutture mentali e del comportamento. È nelle profondità del linguaggio che si strutturano le visioni e i giudizi sull’altro. E le parole sono veicolo del pensiero e delle azioni.
Arrivo così alla proposta operativa di impegno nella comunicazione non ostile. Si tratta di un manifesto in dieci punti, qui allegato. Scegliere cosa dire e come dirlo; avere chiaro qual è l’intento comunicativo e decidere se sia di distruggere l’interlocutore o costruire un ponte fatto di parole. Il sessismo nel linguaggio attinge a un ancestrale disprezzo dell’elemento femminile – o “diverso” rispetto al modello maschile, virile e conquistatore (mi viene in mente l’uso “amoroso” del verbo “conquistare”, o il significato economico nell’espressione “chiedere la mano”, cioè proporre un acquisto)- ed è aggressivo anche quando non lo sembra più, perché ci siamo abituati.
Le parole sono importanti: ci dicono chi siamo, e come stiamo al mondo.
Io, voglio starci alla pari.
Autrice: Giulietta Stirati