Familienfieber, 2014
Katrin Waligura, Peter Trabner, Deborah Kaufmann, Jörg Witte, Anais Urban, Jan Amazigh Sid.
Regia: Nico Sommer
La verità è una cosa semplice: basta dirla. Eppure, ognuno di noi sa anche che non vi è nulla di più difficile da vedere, riconoscere, dire e accettarne le conseguenze.
La verità –e l’autenticità- è il tema portante di questo film, “Familien Fieber”, del regista Nico Sommer. Prodotto da due case dai nomi evocativi (Süsssauerfilm e Traumfängerfilm), esso racconta una vicenda ordinaria e quanto mai comune: due coppie –Uwe e Maja Roth e Stefan e Birgit Ohnsorg-, su richiesta dei reciproci figli (Alina e Nico) che desiderano che i genitori si conoscano tra loro, scoprono di essere legate dalla relazione clandestina di Maja e Stefan. Per di più ci si mette il vero motivo di questo strano “Familientreff”: Alina, la figlia di Uwe e Maja, è incinta e la riunione serve per comunicare la notizia ai rispettivi genitori.
Interessante e straniante è il l modo in cui la storia viene raccontata: perché questa è una storia che rispetta la verità, quella di tutti.
La verità del regista: che alterna continuamente i punti di vista, e quindi ci offre stato d’animo, azioni e pensieri di ogni singolo personaggio attraverso il suo sguardo; che utilizza un escamotage narrativo per riempire di senso le azioni e le parole dei personaggi, alternando continuamente la narrazione della storia alla sua interpretazione. Il film, infatti, si apre e si snoda su due assi temporali: la fabula, ovvero il racconto della vicenda, e la riflessione sulla vicenda, che i quattro protagonisti compiono davanti a una telecamera, in una sorta di interviste incrociate (moglie/marito, moglie/moglie, marito/marito, amante/amante); ciò permette allo spettatore di entrare nella storia con uno sguardo più ampio e complesso. Una sorta di metacinema, in cui i personaggi si liberano delle loro maschere e si svelano davanti alla telecamera.
La verità dei personaggi: ognuno dei quali ha diritto alla propria verità. La sfida consiste nel vedere se queste diverse verità possano trovare un punto d’incontro.
Il regista dissemina, qua e là, indizi che accompagnino lo spettatore fino a farlo diventare un compagno di viaggio reale, persino nella sfasatura spazio-temporale. In fondo, quando pensiamo o rievochiamo qualcosa, non ci muoviamo pure noi su differenti assi di spazio e tempo? Ecco: il regista “distende” in una storia –e ripeto, una storia ordinaria, con attori eccezionali nella loro ordinarietà: potremmo davvero essere noi- di una certa durata i contorcimenti mentali che nella nostra vita ingarbugliano luoghi, tempi, emozioni. Il regista ci aiuta a individuare i fatti e i pensieri intorno ai fatti.
Per cui la storia comincia immediatamente su questo doppio binario: presenta i quattro protagonisti nella loro quotidianità, compresa la relazione clandestina tra Maja e Stefan, e presenta il cuore narrativo intorno a cui ruota tutta la vicenda, ovvero l’annuncio della gravidanza di Alina.
Allo spettatore è resa possibile –sempre che lo voglia- la comprensione del non-detto attraverso una struttura narrativa piuttosto chiara, come la suddivisione in cinque capitoli e l’estrema semplicità delle domande che i personaggi si rivolgono “dopo”: perché c’è un “prima-della-verità” e un “dopo-la-verità”; vero è che il “dopo” si insinua nel “prima”: ma ciò avviene perché nell’anima non esiste un “prima” e un “dopo”, e questa è la storia di anime coraggiose, tormentate, dentro vite qualunque.
Quindi, nello scorrere dei capitoli, impariamo a conoscere l’anima di Maja, che, scoperto che il padre di Nico è il suo amante, non può più fare a meno di prendere atto che etwas ist kaputt gegangen e, nel momento in cui le sue due vite si scontrano, sente di dover essere autentica e fa scoppiare la bomba dichiarando pubblicamente la verità: accoglie il dolore di Uwe che piange e si dispera, ma resta lì, senza scappare; conosciamo l’anima infelice di Birgit, moglie tradita e consapevole di esserlo stata più volte e che finalmente ammette a se stessa di sentirsi sempre sola, indipendentemente dal marito; veniamo a comprendere che il perenne sorriso sornione di Stefan, che pare così controllato, altro non è che noia mortale (“io non l’ho fatto contro di te”, dichiara alla moglie), e disperato bisogno di sentirsi vivo; e ameremo la grandezza di Uwe, che mentre sente su di sé il peso della propria debolezza (“mia figlia non mi ascolta, mia moglie non mi ascolta, sono disoccupato e attacco manifesti, sono povero”), rivela una grandezza morale e una tempra emotiva davvero straordinarie: la sua ingenuità (“perché l’hai fatto?”, chiede alla moglie) è una luminescenza che lascia intravvedere un’anima grande, capace di soffrire senza usare la sofferenza come arma, capace di affrontare il dolore senza farsene una veste e capace, quindi, di accogliere, veramente, l’altro. Quello che di lui mi ha più colpito è stato che la sua ira verso Stefan non ha mai, mai per oggetto la moglie intesa come proprietà, e questo è molto significativo, perché ci offre il ritratto di un uomo che accetta di mettersi in discussione e considera l’amore come una scelta, e non come un diritto da rivendicare contro altri.
Nella successione dei cinque capitoli (Routine, Segreti, Febbre, Chance, Famiglia) assistiamo allo scontro e alla conflagrazione dei vari pezzi di queste anime, che avevano preso a vivere separate le une dalle altre. Ecco perché il capitolo centrale, quello più drammatico (il “day after”, per intenderci) si chiama Chance: perché solo dopo il terremoto si può ripensare alla ricostruzione –o alla costruzione, sempre che ci sia o se ne abbia voglia.
“Dopo” siamo tutti nudi, gli uni di fronte agli altri (non a caso, secondo me, Maja rivela la verità nel momento in cui tutti e quattro sono in costume a prendere il sole), e non possiamo più fingere, almeno a noi stessi. Il coraggio dei personaggi sta nell’aver accettato (su proposta di Uwe e Birgit) di restare così scoperti e vulnerabili di fronte alla macchina da presa e di aver risposto senza finzione alla più semplice delle domande (“perché?”), accettando la possibilità di risposte poco piacevoli o del silenzio.
Tutto il film è trapuntato da riferimenti e sottintesi alla dialettica finzione/verità, come una musica che accompagna i personaggi alla scoperta di sé.
Durante la tragedia familiare, i due figli non ci sono. Loro sono il simbolo di quanto sta avvenendo nelle vite dei genitori: la loro breve gita –per trovarsi e trovare il coraggio di dirla, la verità- condensa nello spazio di poche ore tutto quel che ha strappato le anime degli adulti; a differenza dei loro genitori, Alina e Nico si dicono tutto: paure, incertezze, e vanno fino in fondo, perdendosi metaforicamente nel bosco e ritrovandosi la mattina seguente. A quel punto sono pronti, e –loro non lo sanno-, ma sono pronte pure le loro famiglie, ad accoglierla questa verità. La Famiglia è una febbre: ma se la si affronta con la verità, fa crescere.
Sarà una bambina, e a me piace pensare che, come cantava Lucio Dalla, la chiameranno Futura.
1 “ Vale la pena sottolineare come, in questo caso, il nomen (Ohnsorg = ohne Sorge, cioè senza preoccupazione), richiama l’omen per antifrasi.
Autrice: Giulietta Stirati