Giovedì serata d’apertura del Festival del Cinema di Berlino 2017. Tanti i party e le feste mondane organizzate per l’occasione. Sono capitata a quella organizzata dalla Grundy e da Gala presso il lussuoso Design Hotel Sue al Tiergarten, in cui tra champagne versato a gogò e limousine si sono visti arrivare tanti attori tedeschi, di cinema e tv, starlette, presentatrici, registi, lo stilista Jean Paul Gautier e, tra la folla accalcata nelle sala dell’albergo, ho pure incrociato lo sguardo sperduto del grande Mario Adorf. Per fortuna la vera Berlinale, molto meno glamourese e molto più engagée, veniva inaugurata al Berlinale Palast lì vicino.
Il Festival si è aperto giovedì sera con Django, di Etienne Comar. Ambientato nel 1943, nella Francia occupata dai nazisti, racconta la vicenda di Django Reinhardt, il più grande compositore e chitarrista gipsy della storia, alle prese con il potere nazista. L’attore protagonista Reda Kateb interpreta il chitarrista-compositore nato nel 1910 in Belgio da una famiglia gitana, diventato una star assoluta in Francia negli anni 30, e costretto poi alla fuga da Parigi dopo l’occupazione. Django Reinhardt aveva due dita atrofizzate a causa di un incidente, un incendio nella sua roulotte, e iniziò fin da giovanissimo a suonare usando una chitarra particolare. Probabilmente proprio grazie a questa menomazione sviluppò una tecnica chitarristica particolare. Swing e Blues, ritmo e talento puro, lo spirito della pellicola è incarnata perfettamente dall’attore protagonista Reda Kateb, l’anima del film, un volto che ipnotizza e che restituisce brillantemente lo spirito del personaggio: affascinante, ribelle, introverso, solitario, ma dai solidi valori famigliari, prima antipolitico, poi costretto a fare i conti con una realtà atroce. Nel complesso è un bel film Django. Forse perde qualcosa nella parte centrale, quando il musicista con la famiglia aspetta di attraversare il confine svizzero per tentare di mettersi in salvo. Il piano politico e quello privato si mescolano in maniera a volte frammentaria. Il finale invece è commovente e la musica straordinaria.
Ieri è stata la volta del film ungherese Teströl és lélekröl (on Body and Soul) diretto da Ildikó Enyedi. Ambientato in un macello, narra la strana storia d’amore tra il responsabile finanziario della ditta, interpretato da Géza Morcsányi (Endre), e un’ispettrice responsabile della qualità della carne, Alexandra Borbély (Mária), entrambi molto convincenti. Tra immagini crudissime di animali macellati nasce un legame onirico tra i due protagonisti, i quali si incontrano di notte, nel sonno, nelle sembianze di due cervi, all’interno di un incantato bosco innevato, un paesaggio stupendo che contrasta fortemente con il luogo di morte e sangue in cui entrambi lavorano. Per uno strano caso i due scoprono di vivere gli stessi sogni. Dapprima turbati ed increduli, si lasciano trascinare dentro una storia d’amore che sembra impossibile. Maria infatti è una donna particolare: affetta da una forma di autismo che le permette sì di lavorare e vivere da sola, ma che le impedisce ogni rapporto personale ed ogni contatto sia fisico che emotivo. Incapace di vicinanza, asettica, Maria pian piano cambia, si apre. Attraverso i sogni, attraverso la musica, inizia a sentire in modo diverso. Teströl és lélekröl è una pellicola molto affascinante. A tratti cruda, a tratti ironica, ci racconta il miracolo dell’amore che, contro ogni convenzione e buon senso, ridà un senso e una prospettiva all’esistenza.
E ieri è stata anche la volta di The Dinner, terzo film tratto dall’omonimo romanzo di Herman Koch del 2009. Dopo l’adattamento olandese del 2013 e quello italiano del 2014 (“I nostri ragazzi”, di Ivano di Matteo, con Luigi Lo Cascio, Giovanna Mezzogiorno, Alessandro Gassman e Barbora Bobulova), arriva ora questo americano, diretto da Oren Moverman ed interpretato da Richard Gere, Laura Linney, Steve Coogan e Rebecca Hall. Due famiglie alle prese con un dilemma: come comportarsi quando si scopre che i propri figli adolescenti si sono resi colpevoli di un crimine orrendo? Coprirli oppure metterli di fronte alle loro responsabilità? In realtà questa versione spazia in altri campi, non si limita al mero fatto di cronaca e alle eventuali conseguenze. Diviso in capitoli che seguono le portate della cena servita in un esclusivo ristorante, i quattro protagonisti danno vita ad un gioco al massacro in cui il passato irrisolto (I due protagonisti maschili sono fratelli) fa continuamente irruzione. Vi sono flashback e riferimenti storici. Questi ultimi forse appesantiscono l’architettura del film, già stracolmo di materiale umano da districare: figli sperduti dentro un vuoto emotivo e genitori se possibile ancora più persi dentro un’esistenza che sembra, per motivi diversi, torturarli. E poi la malattia mentale di Paul (interpretato da Steve Coogan), un insegnante di storia che con le sue elucubrazioni, a tratti acute, sulla condizione umana, è il vero protagonista del film.
Durante l’affollata conferenza stampa Richard Gere, rispondendo alle domande di una giornalista, non risparmia critiche a Trump, reo di aver identificato la parola rifugiato con la parola terrorista. Gere ci racconta della fiducia che ha nel regista Overman, con cui ha già lavorato in passato, fiducia che è alla base di ogni sua scelta professionale. La pellicola ha, a mio parere, dei momenti molto riusciti e brillanti, ma si perde in molte, forse troppe divagazioni. In ogni caso un film diverso, fuori dalle regole, che troverà tanti estimatori quanto detrattori.
E siamo appena all’inizio.
Autore: Barbara Ricci